Milano, Italia. Il dubbio-primarie
La vittoria dell’avvocato contro l’architetto getta un’altra volta il Pd nel panico: oggi riunioni importanti per il suo dibattito interno
Puglia, Milano, l’intero paese. È l’incubo che agita il Nazareno: un filotto di primarie in cui candidati più carismatici e dal profilo più netto, sostenuti da Sel, riescano a battere gli uomini messi in campo da un Pd, la cui identità appare sbiadita e i consensi in calo. La vittoria di Giuliano Pisapia ha riaperto il dibattito interno, a partire proprio dall’utilizzo dello strumento delle primarie. Uno strumento, appunto, è la linea guida del segretario Bersani, che non può diventare un totem irrinunciabile, ma che deve essere utilizzato in maniera più “razionale”: utile se riesce a suscitare entusiasmo e partecipazione, controproducente se crea solo frizioni interne e con gli alleati naturali o possibili. I risultati di domenica, più per la partecipazione al di sotto delle aspettative che per le percentuali dei singoli candidati, sarebbero sufficienti a iscrivere il caso milanese in questa seconda categoria.
Si tratta, tuttavia, di una semplificazione. La lettura dei dati, infatti, fa emergere un’affluenza in linea con quella del 2006 (quando vinse l’ex prefetto Bruno Ferrante) nei quartieri centrali, che si sono espressi in maggioranza per Pisapia. In periferia, invece, a un calo netto della partecipazione si è accompagnato il successo di Boeri. «Proprio lì, dove l’azione della Moratti è stata più deludente – fa notare il veltronianoVinicio Peluffo – c’era bisogno di una maggiore presenza del Pd». Insomma, se le primarie non sono state efficaci, ancor meno lo è stato quel radicamento su cui Bersani punta tanto.
Se Marco Follini stigmatizza il «culto delle primarie», convergono seppur da fronti diversi le analisi di Arturo Parisi e Rosy Bindi. Il primo addebita la sconfitta alla «catena di comando del partito», invitandola a non considerare le primarie come «un plebiscito propagandistico attorno al candidato ufficiale». Anche la presidente dem avrebbe preferito che il Pd non esprimesse una propria preferenza e auspica l’utilizzo di questo strumento «con un atteggiamento e una sapienza politica diversi da quando le candidature venivano scelte dalle segreterie».
È il MoDem a muovere le critiche più severe. «Sarà bene riflettere in profondità prima che sia troppo tardi», avverte Paolo Gentiloni e Beppe Fioroni precisa: «C’è un lento e progressivo scivolamento dell’immagine del Pd a partito percepito come di sinistra e conservatore ». A questo punto, rilancia Stefano Ceccanti, «o si rilancia la vocazione maggioritaria o si rinuncia alle primarie e con esse all’ambizione di guidare un’alleanza vincente».
Ma i malumori si allargano anche al di là della minoranza. È il vicesegretario Enrico Letta a parlare esplicitamente della necessità di «riflettere in profondità prima che sia troppo tardi».
La sua attenzione è rivolta alla necessità di aprire un canale di dialogo con il terzo polo, a livello nazionale e anche nella stessa Milano (la candidatura di Gabriele Albertini potrebbe spaccare il centrodestra). Per questo, teme che il Pd si sbilanci su una linea politica troppo di sinistra, ma anche che le primarie rappresentino un ostacolo per la «costruzione di una coalizione più ampia e aperta al centro dello schiaramento politico», come evidenzia Alessia Mosca. I vertici di AreaDem, dal canto loro, non si sbilanciano.
Ma Emanuele Fiano, già candidato franceschiniano alla segreteria regionale in Lombardia, lascia trapelare le sue perplessità: «Il giudizio degli elettori riguarda tutto il Pd, non solo Boeri o i dirigenti milanesi, che si sono dimessi. Siamo schiacciati tra Vendola e Fini e noi, che dovremmo rappresentare l’area riformista, non sembriamo avere un’identità».
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